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Gli Strumenti Siamo Noi (Prima Parte)

La punta dell’indice accarezza lo schermo liscio. La timeline scorre senza sosta, come un’incessante cascata digitale. La notizia di una nuova guerra, un pinguino che scivola sul ghiaccio, un aforisma di Oscar Wilde, il ministro che ne ha sparata un’altra delle sue; il meme di Di Caprio, il terrorista col kalashnikov, uno che augura buon martedì a tutti; e poi 13 morti per un missile caduto chissà dove, un trancio di pizza salame e gorgonzola, una ragazza di 20 anni stuprata e decapitata, #facciamorete, una poesia di Baudelaire.

Una sequenza ipnotica di immagini e parole fluisce quotidianamente sotto i nostri occhi senza alcuna soluzione di continuità, oscillando come un pendolo tra la tragedia e il grottesco, l’essenziale e l’effimero, il dolore e l’umorismo più leggero. È la melma indistinta che non lascia spazio alla riflessione né al sentire autentico. È il bombardamento schizofrenico di informazioni in cui la capacità di stupirsi, di indignarsi o di empatizzare viene puntualmente soffocata in un’assurda sovrabbondanza di stimoli che si annullano l’un con l’altro. È il noioso teatrino quotidiano delle interazioni virtuali, in cui l’applauso è sostituito dal like, la standing ovation dal repost e ogni lacrima è prontamente asciugata dalla prossima risata digitale.

Non serve avere particolari competenze per intuire che un’assimilazione così frenetica e indiscriminata di contenuti, priva di qualsivoglia sistema di gerarchizzazione, rischia di causare serie ripercussioni sul nostro benessere mentale ed emotivo.

Abbiamo visto tutti The Social Dilemma, conosciamo le vicende di Cambridge Analytica, sappiamo che ruolo hanno avuto i social network nell’assalto a Capitol Hill e nei drammatici eventi di questi ultimi mesi. Viviamo tutti i giorni sulla nostra pelle quel che sono diventati i social, specialmente in questi ultimi anni: luoghi dove il confronto civile è merce rara; dove sguazzano indisturbate le fake news e le teorie complottistiche; dove tutto, ma proprio tutto, finisce inevitabilmente in caciara. Luoghi dove non è più nemmeno possibile farsi due risate e cazzeggiare in santa pace senza venir assorbiti dall’ennesima polemica sterile e senza seguito. Per certi versi – e dispiace davvero doverlo scrivere – sono diventati luoghi sgradevoli, i social. Troppo nervosismo, troppa maleducazione, troppo esibizionismo. Troppo poco di tutto il resto.

E allora, senza timore, diciamoci la verità, non abbiamo scuse: sappiamo ciò che sta accadendo. Sappiamo che esiste il rischio concreto che l’uso smodato dei social possa provocare conseguenze spiacevoli per il nostro equilibrio psicologico. E per quello dei nostri figli. Sappiamo, ma continuiamo a nascondere la polvere sotto il tappeto.

Poi ci stupiamo della violenza verbale, dell’aggressività ingiustificata, della volgarità dilagante, della superficialità di giudizio, del conformismo inquietante di milioni di tweet tutti uguali, della mancanza di ogni forma di rispetto o riconoscimento per chicchessia. Ma di cosa mai dovremmo stupirci? È da almeno un decennio che veniamo avvertiti, in tutti i modi possibili e immaginabili: documentari, libri, studi scientifici, articoli accademici, c’è una letteratura vastissima che affronta l’argomento da ogni punti di vista. E tutti, senza eccezioni, giungono alla medesima conclusione: l’eccessiva esposizione ai social network può provocare, in maniera più o meno diretta, l’insorgere di disturbi comportamentali, anche gravi, soprattutto tra i giovani. Abbassamento dell’autostima, depressione, propensione all’aggressività ingiustificata, senso di alienazione dalla realtà. Ce n’è per tutti i gusti. E i dati sono davvero preoccupanti: isolamento sociale, cyberbullismo, atti di violenza gratuita, autolesionismo, suicidi sono in crescita esponenziale ovunque, in misura nettamente maggiore tra adolescenti e persino pre-adolescenti. I nativi digitali, per intenderci. Sappiamo tutto di quel che sta accadendo, da anni, non siamo mica scemi. Ma facciamo finta di nulla perché un po’ ci fa comodo. E perché ci piace da impazzire. Facciamo finta di nulla perché ci siamo tutti dentro fino al collo.

Al di là dei dati e delle statistiche, poi, parlano le nostre esperienze dirette: chiunque frequenti social più o meno attivamente ha da raccontare un’esperienza spiacevole in questo senso. Sappiamo bene come funziona: un commento negativo, un’incomprensione, una reazione sproporzionata, e in breve tempo si scatena una valanga di odio e di avversione. Offese, attacchi personali, minacce. Tentare un confronto civile ed educato in questi spazi, tranne le ovvie eccezioni, è ormai non solo inutile ma anche nocivo, a volte persino pericoloso.

Chiediamoci il perché di tutto questo. Quand’è che siamo diventati così violenti, meschini, superficiali? Quando, esattamente, abbiamo scelto di sigillare le porte al dialogo per trincerarci dietro queste odiose prigioni fatte di convinzioni incrollabili e inamovibili certezze? Siamo davvero così? Lo siamo sempre stati? È nella nostra natura esprimerci in questa maniera? Insomma, davvero i social sono soltanto semplici contenitori nei quali riversiamo le nostre realtà, oppure sono “soggetti” che attivamente, attraverso meccanismi subdoli e astuti, influenzano e modificano il nostro codice comportamentale per servire logiche di profitto (e non solo)? E a quale prezzo?

Fermiamoci un momento. Diamo uno sguardo oltre il vetro lucido dello schermo e cerchiamo di riflettere su ciò che sta accadendo intorno e dentro di noi. O meglio, su ciò che è già accaduto. Abbiamo volontariamente consegnato la nostra attenzione, il nostro tempo, a degli altari virtuali che stanno cambiando in profondità le nostre abitudini comportamentali, il nostro modo di approcciarci agli altri e alla realtà che viviamo tutti i giorni. Con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Gli algoritmi ci conoscono, giocano con le nostre emozioni, ci seducono con l’approvazione altrui e ci tengono lì, inchiodati, in un ciclo perpetuo di desiderio e soddisfazione temporanea, lavorando h24 per convertire il nostro tempo in denaro sonante. I social network non sono (più) strumenti attraverso i quali esprimiamo liberamente le nostre opinioni e ci confrontiamo in maniera edificante. No, gli strumenti siamo diventati noi. E abbiamo il dovere, l’urgente dovere, di riconoscere il ruolo che oggi queste piattaforme giocano nelle nostre vite, provando ad avviare una riflessione su come difendere il nostro spazio mentale, preservando la nostra autenticità e il nostro libero arbitrio all’interno di questi ecosistemi digitali.

I social network sono una droga

“Quando ti svegli al mattino, controlli lo smartphone prima di fare la pipì o mentre fai la pipì? Perché queste sono le uniche due possibilità”. La citazione scherzosa è di Roger McNamee, uno degli imprenditori che per primi investirono in Facebook. E fa ridere fino a un certo punto, perché mette a nudo, con un’ironia dannatamente amara, la profondità della nostra dipendenza dai dispositivi e dai social. E a ben guardare, se vogliamo essere onesti, è anche una verità sbattuta in faccia a molti di noi.

Non c’è alcun dubbio: la dipendenza da social network ha trasformato radicalmente le nostre abitudini comportamentali. Appena ci svegliamo, mentre siamo al ristorante, mentre lavoriamo, mentre guidiamo, mentre parliamo con gli altri. Quante volte al giorno consultiamo, anche solo fugacemente, il nostro smartphone? C’è un documentario della regista australiana premio Oscar Eva Orner che dà una risposta basata su dati e statistiche. E la risposta è incredibile: in alcune zone del mondo, per alcune fasce d’età, si parla di 150 volte al giorno. Una volta ogni 7 minuti. Per non parlare poi del tempo effettivo che trascorriamo con gli occhi fissi sullo schermo. L’esperienza è così coinvolgente che anche la nostra percezione del tempo ne risente. Rispondiamo su whatsapp, scorriamo le timeline dei nostri social, leggiamo un paio di post, un commento, aspettiamo la risposta, mettiamo qualche like. Alziamo gli occhi ed è passata già un’ora e non ci sembra vero.

Ma insomma, cos’è che rende gli smartphone e i social così irresistibili?

Beh, una delle principali risposte, a mio avviso la più interessante, risiede nella neurochimica. Ogni volta che riceviamo un like, un commento, una condivisione o una notifica – segni tangibili di validazione sociale che incidono direttamente sulla nostra autostima – il nostro cervello rilascia dopamina, il neurotrasmettitore associato al piacere e alla ricompensa. Il meccanismo è semplice e lineare, ed è legato al concetto di quello che in gergo tecnico viene chiamata “retroazione positiva”. Che poi somiglia un po’ a quegli esperimenti dove il topolino schiaccia il pulsante per ricevere cibo in continuazione.

Nel sistema di retroazione positiva la prima scarica di dopamina è rilasciata in anticipo rispetto alla ricompensa prevista. Quindi, il semplice gesto di postare su un social – anteponendo l’attesa di approvazione sotto forma di like – avvia il rilascio di una certa dose di dopamina. Quando i like arrivano, confermano e amplificano la risposta dopaminergica, alimentando un ciclo post-riconoscimento-post che spinge l’utente a tornare incessantemente alla piattaforma per ottenere la ricompensa di una nuova interazione o approvazione.

Ovviamente, come avviene per la dipendenza da sostanze stupefacenti, si sviluppa gradualmente una certa assuefazione, e si comincia ad avvertire la necessità di quantità sempre maggiori di approvazione per sperimentare lo stesso livello di soddisfazione. Ed è esattamente in questo momento che avviene l’incantesimo, lo strappo definitivo: la misura del proprio valore si distorce, e l’autostima si lega in maniera indissolubile e sempre più stringente al grado di apprezzamento virtuale. Questo spinge l’utente a rifugiarsi sempre più nella propria bolla di follower, isolandosi ulteriormente dal tessuto reale delle proprie relazioni umane ed erodendo la capacità di interazione e condivisione autentica.

I social network sono una droga. Non solo in senso figurato, ma nell’accezione più stretta del termine. Una droga che non modella soltanto le nostre interazioni online, ma scolpisce anche le trame dei nostri comportamenti quotidiani, delle nostre scelte e, in ultima analisi, della nostra percezione della realtà e del nostro posto in essa. Al resto, poi, pensano gli algoritmi, sapientemente progettati per captare e mantenere la nostra attenzione, e per creare uno specchio deformante in cui l’utente vede riflessa una versione di sé costruita e plasmata attraverso il filtro delle aspettative altrui. È in questa danza tra risposta biochimica e algoritmi che gradualmente diventiamo al contempo architetti e ostaggi delle nostre prigioni digitali, all’interno delle quali tessiamo, consapevolmente o meno, la tela della nostra stessa dipendenza.

Immagine generata dall’autore via AI Dall-E

(continua qui)

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