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Gli Strumenti Siamo Noi (Ultima Parte)

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Conclusioni

Vorrei innanzitutto spendere qualche parola per sgombrare il campo da eventuali incomprensioni riguardo la natura di questo testo. Il mio intento non è certo quello di giudicare negativamente i social, anzi. Sono pienamente cosciente della ricchezza umana che si nasconde dietro gli schermi. Ammiro profondamente chi si adopera ogni giorno per usare i social con onestà e dedizione, con l’obiettivo di diffondere informazioni valide e contenuti di alta qualità. Leggo quotidianamente persone eccezionali che trovano nei social non solo un passatempo, ma un vero e proprio rifugio esistenziale, un modo per affrontare la solitudine o elaborare eventi che hanno scosso le loro vite. In molti li frequentano con moderazione, mantenendo una sana distanza da qualsiasi forma di dipendenza. So bene, infine, che si sta sui social anche semplicemente per cazzeggiare, farsi due risate e ammazzare il tempo. E non c’è nulla di male. Ma non è questo il punto. Guardare soltanto al proprio orticello virtuale, o alla propria ristrettissima cerchia di amici – ritenendosi di fatto estranei o immuni alle complesse dinamiche dei social – potrà anche rivelarsi un utile esercizio per accrescere la propria autostima, ma di certo non apporta valore a una riflessione più generale che, ripeto, è urgente e non può essere rimandata.

Non me la sento nemmeno di condannare indiscriminatamente coloro che hanno creato e gestito i social fino ad oggi. Stento a credere che 15 anni fa i giovani “visionari” della Silicon Valley si siano rinchiusi in stanze segrete con il sinistro proposito di creare piattaforme virtuali che gli avrebbero permesso di dominare il mondo. Ci mancherebbe. No, loro hanno creato strumenti per generare profitto, tra l’altro riuscendoci benissimo. Piuttosto, mi viene da attribuirgli la responsabilità di aver voltato lo sguardo dall’altro lato quando è diventato evidente che la loro folle e frenetica corsa al profitto aveva cominciato a generare conseguenze ben più dannose di quanto avessero previsto.

È una colpa grave l’ignavia, sì. Ma anche quando lanciamo le nostre invettive contro Zukerberg e compagnia cantante, il mio invito è sempre quello di ricordare che i social non sono spazi pubblici in cui possiamo rivendicare diritti illimitati. Li percepiamo come tali, certo, perché fanno ormai parte della nostra vita, e perché in qualche modo ci siamo affezionati. Ma la realtà è che i social sono aziende private, possedute e gestite da soggetti privati che perseguono uno scopo ben preciso: il profitto. Non sono enti benefici, ma società quotate che rispondono ai propri azionisti con bilanci trimestrali. Cosa pensiamo di pretendere? Crediamo davvero che le invettive, le rivendicazioni, le istanze di cambiamento – in nome di chissà quale principio etico o morale – possano fermare o anche solo rallentare queste perfette macchine da soldi? Beh, forse sarò troppo cinico e poco elegante in quel che sto per affermare, ma a me sembra che l’avidità se ne sia sempre altamente fottuta dell’etica. E, a ben vedere, non c’è motivo di credere che nel contesto attuale – specialmente con i nuovi personaggi che oggi tirano le redini del carrozzone – le cose possano andare diversamente.

I piccoli gesti

Da anni siamo sommersi da discorsi sulla necessità di educare i giovani a un uso consapevole dei social. Da oltre un decennio ci confrontiamo su libertà d’espressione e censura, discutendo dei contenuti che indisturbati si diffondono sui social, e che spesso offendono la nostra sensibilità e minacciano il nostro equilibrio mentale. Da sempre ascoltiamo recitare le solite formule preconfezionate: “C’è bisogno di un ampio dibattito che coinvolga il legislatore, la scuola…”. Bla bla bla. Parole vuote. Concetti vuoti. Proposte concrete: non pervenute. Risultati: zero.

Lavoro nel marketing da 15 anni e frequento i social fin dall’inizio (in realtà, per “uso personale” soltanto Twitter, gli altri per lavoro). Li ho visti nascere e li ho visti cambiare. Per qualche tempo ho anche lavorato dall’altra parte della barricata, maneggiando strumenti e tecniche di persuasione pubblicitaria molto avanzate, che a me per primo hanno lasciato letteralmente esterrefatto per l’accuratezza, la precisione chirurgica e, ça va sans dire, per l’assoluta mancanza di qualsivoglia principio etico che ne regoli le finalità. Ho visto, insomma, fino a che punto possono spingersi le grandi aziende – non solo le piattaforme social – per massimizzare i profitti.

Io credo, come ho già avuto modo di sottolineare, che siamo in colpevole e gravissimo ritardo, e che se si vuole davvero dar inizio a un cambiamento si debba obbligatoriamente spostare il discorso su un piano diverso, più concreto, colpendo dritto al cuore pulsante del problema: il portafoglio. C’è un’urgente necessità di riformare il modello economico dei social media. La mia opinione è che finché la monetizzazione sarà basata sulla quantità di attenzione catturata – e non sulla qualità o veridicità dell’informazione – i social network saranno sempre un terreno fertile per la proliferazione di fake news e di altre dinamiche deleterie. Sono necessari incentivi per premiare l’accuratezza, l’affidabilità e l’integrità dei contenuti informativi, piuttosto che la capacità di generare click e condivisioni. Chissà, forse le intelligenze artificiali – diversamente da quanto d’istinto potremmo pensare – potrebbero rivelarsi i nostri migliori alleati nel perseguire questi obiettivi con maggiore efficacia. Io, francamente, lo spero.

Il resto è una questione privata, che ha a che fare con la nostra coscienza e il desiderio – o meglio, la volontà – di vivere l’esperienza dei social in maniera più consapevole. Il primo passo è ovviamente riconoscere il problema, smettere di minimizzarlo, di banalizzarlo, o di annacquarlo in discorsi tipo “i social sono solo un medium come un altro, non sono poi così diversi dalla televisione”. Un’osservazione quest’ultima che, seppur valida in un certo senso, trascura un aspetto fondamentale: l’onnipresenza degli smartphone nella nostra quotidianità. Mai prima d’ora abbiamo avuto un mezzo di comunicazione così invasivo, così presente in ogni momento della nostra giornata. Non abbiamo mai controllato un tv al semaforo, al ristorante, in bagno, mentre camminiamo. Non abbiamo mai avuto un tv in tasca o nella borsa. E soprattutto, non abbiamo mai potuto dire la nostra, in tv. Non abbiamo mai avuto un ruolo attivo e mai abbiamo dovuto relazionarci con algoritmi invisibili e subdole strategie di engagement. Che poi mi sembra il nodo centrale di tutto il discorso. Un discorso – quello del confronto tra tv e piattaforme social – che mi interessava sfiorare, ma che qui non vale la pena approfondire.

Perché invece non cominciamo dall’osservazione critica della nostra esperienza diretta sui social? Per esempio, perché non porre l’attenzione sull’assurda dinamica del “ti seguo se mi segui”, “ti metto like se mi metti like”? Non è forse già questa una mastodontica distorsione del concetto stesso di relazione umana? Non è forse totalmente insana quest’ossessione per il numero di follower? Cosa porta di positivo alla nostra vita avere migliaia di follower che applaudono per ogni nostro starnuto? Perché stiamo sui social? Per informarci, per cazzeggiare, per crescere attraverso il confronto e tessere nuove relazioni, o per puro esibizionismo, per colmare vuoti esistenziali attraverso dosi di autostima illusoria e posticcia?

Iniziamo dai piccoli dettagli. Proviamo a spostare le icone dei social dalla home del nostro smartphone, nascondiamole in una cartella. Aggiungiamo qualche passaggio, rendiamo l’accesso meno immediato, affinché l’atto stesso di controllare le notifiche diventi un gesto cosciente e deliberato, non più automatico e inconsapevole. Proviamo a diminuire il tempo che trascorriamo online. Proviamo a forzare le nostre abitudini, ad imporci dei limiti. Proviamo a sfidare gli algoritmi, per esempio a non seguire automaticamente chi ci suggeriscono di seguire. Non sentiamoci obbligati a partecipare a qualsiasi discussione, all’immancabile sterile polemica del giorno. Proviamo a far sì che i social e i nostri dispositivi siano una piacevole pausa dalla nostra vita, e non il contrario. Proviamo a riappropriarci dei nostri spazi, a riabbracciare le nostre passioni. O scoprirne di nuove.

Non so, in fondo sono solo piccoli gesti, che però potrebbero innescare cambiamenti importanti. O forse no, chi può saperlo con certezza? Del resto, non ho mai conosciuto qualcuno che sia riuscito a smettere di fumare riducendo gradualmente il numero di sigarette. Chi smette davvero, lo fa quasi sempre con un gesto drastico: butta via un pacchetto ancora pieno e decide di non fumare più. E allora anche per quanto riguarda il nostro approccio ai social potrebbe rendersi necessario in alcune occasioni un intervento simile, una scelta radicale. Per molti di noi, ridurre progressivamente il tempo speso online potrebbe non essere sufficiente per rompere il ciclo di dipendenza. Potrebbe essere necessario un gesto più deciso, come disinstallare le app o prendere periodi di pausa prolungati dai social per riacquistare realmente il controllo sul nostro tempo e sul nostro benessere mentale. A volte la soluzione più efficace per liberarci da una dipendenza è tagliare di netto, scegliendo di allontanarci completamente da ciò che ci danneggia.

La verità è che non esiste una soluzione immediata, nessuna formula magica che possa trasformare radicalmente la nostra realtà dall’oggi al domani. Il nostro cammino verso una vita meno dipendente dai social media non può che essere un percorso fatto di riflessione profonda, dialogo aperto, confronto, crescente consapevolezza e, soprattutto, determinazione. Un processo graduale, un viaggio personale in cui ogni piccolo passo, ogni decisione, contribuisce a costruire un nuovo modo di vivere e interagire con il mondo digitale. Un viaggio in cui il coraggio di fare scelte controcorrente costituisce la chiave per riscoprire l’autenticità e ristabilire il controllo sulla nostra vita.

Il vecchio e il nuovo

Ho avuto l’impressione, in questi ultimi mesi, che qualcosa si stia muovendo tra le pieghe nascoste di X. Leggo sempre più spesso post di persone infastidite e stanche che esprimono l’esigenza di allontanarsi dall’incessante flusso di informazioni, dalle interazioni superficiali, dal clima di odio e violenza verbale che in maniera sempre più crescente sta invadendo gli spazi di comunicazione. Alcuni utenti stanno cominciando a riconoscere la tossicità di alcune dinamiche, a riflettere sull’opportunità di prendersi una pausa, staccarsi dal proprio io virtuale, rinunciare alla ricerca ossessiva di approvazione. Qualcosa si sta agitando. Si sta facendo strada un brulicare sottile di insofferenza e crescente consapevolezza. Per il momento si tratta di casi isolati, nulla più. Ma potrebbe essere l’inizio di un trend, di un lento risveglio dal torpore. L’inizio di quella che in maniera forse un po’ audace potremmo definire una “rivoluzione silenziosa”.

Questo desiderio di ritorno a una realtà più tangibile e umana è segno di un bisogno profondo di connessioni autentiche, di dialoghi significativi che non siano guidati dalla necessità di ottenere approvazione immediata, ma dalla volontà di comprendere e di essere compresi. Sempre più persone aspirano a ritrovare spazi di interazione che rispecchino davvero la propria essenza, che siano più congeniali al proprio modo di relazionarsi agli altri. Ecco allora che il format dei vecchi blog dei primi anni del Duemila potrebbe oggi ispirare la creazione di nuovi luoghi di confronto per chi è stanco di sguazzare nella melma paludosa dei social, che in nome dell’immediatezza e della libertà d’espressione (sic!) ci stanno isolando sempre più dal mondo reale. Luoghi dove la voce di ciascuno possa risuonare senza essere soffocata dal clamore dei like e delle condivisioni. Luoghi non governati da logiche di profitto e algoritmi, ma da buon senso e dialogo civile. È qui, nei recessi di questi angoli digitali quasi dimenticati, che possiamo non solo ritrovare vecchi e nuovi modi di interagire, ma forse anche riscoprire il vero potenziale dei social network. Non palcoscenici per l’egocentrismo, ma potenti strumenti per condividere contenuti di qualità, idee, informazioni. Non manipolatori della nostra attenzione, ma spazi virtuali che arricchiscano la nostra vita.

No, non siamo totalmente inermi. Abbiamo la possibilità, le capacità, il dovere di riportare i social alla loro funzione originaria. Non è facile, lo so. E so anche, mi rendo conto, che forse questi sono solo propositi ingenui ed utopistici. Ma dobbiamo pur cominciare da qualche parte. E a mio parere, senza ulteriori giri di parole, c’è un unico percorso da seguire: combattere una lotta silenziosa che costringa le aziende che oggi gestiscono le piattaforme a rivedere il proprio paradigma, riconsiderare il proprio modello economico, i propri obiettivi di business. Una lotta che non si limiti al lancio di slogan fini e sé stessi, a richieste di cambiamento prive di sostanza, ma che sia guidata dalla consapevolezza, dall’azione concreta, dal reale proposito di emanciparci da dinamiche che sappiamo essere dannose per il nostro benessere.

Siamo testimoni oggi di crisi epocali che stanno scuotendo non solo la geopolitica e gli equilibri internazionali, ma stanno erodendo i valori stessi su cui si fonda il nostro sistema di convivenza civile. Torno a ripetere che le piattaforme social, in tale contesto turbolento, giocano un ruolo di primaria importanza. Ciò che un tempo era una discussione riservata ai corridoi della diplomazia ora si svolge apertamente, e spesso in modo caotico, sui social. La velocità con cui le notizie – vere o false che siano – viaggiano in rete ha superato la nostra capacità di analizzarle criticamente, e le piattaforme – che una volta promettevano di democratizzare l’informazione – ora sembrano contribuire alla sua frammentazione e alla sua manipolazione.

Il mondo sta bruciando, signori miei, e se non abbiamo gli occhi foderati di prosciutto dobbiamo quantomeno riconoscere il ruolo di acceleratore del caos che hanno i social nel contesto attuale. Le fiamme sono di fronte a noi, ne percepiamo il calore, il crepitio scoppiettante della materia che viene divorata. Non gioverà a nessuno continuare a guardarle avanzare tenendo fissi gli occhi sullo schermo, tra uno scatto d’indignazione passeggera e l’immagine di un culo perfetto che ci augura buona giornata. Siamo chiamati a riflettere profondamente su cosa significhi veramente essere connessi. È il momento di riscoprire il valore delle relazioni umane nella loro forma più pura e di reinvestire nel nostro io “reale” tanto quanto abbiamo investito nel nostro io virtuale. Siamo strumenti, sì. Lo siamo sempre stati e forse non cesseremo mai di esserlo davvero. Ma, anche se può sembrare paradossale, è solo nelle nostre mani che risiede il potere di determinare se gli spazi digitali in cui interagiamo oggi debbano continuare ad essere paludi di conflitti superficiali o diventare giardini fioriti di crescita personale e collettiva.

 Immagine di Paweł Kuczyński. Video di Steve Cutts, “Mobile World”.

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