Prima che i social prendessero il sopravvento sulle nostre vite poteva capitare, a ognuno di noi, di guardare un film, un evento, uno spot, che ci piaceva in modo particolare o viceversa che provocava un grande fastidio. A volte tale fastidio rimaneva un fatto intimo, perché tu sapevi che della tua opinione non richiesta generalmente se ne sbattevano le balle anche gli amici più intimi.
Poi sono arrivati i social ed è cambiato tutto.
Se ad aprire per la prima volta i social fosse un individuo che arriva dal passato questi potrebbe pensare che la nostra società è notevolmente impegnata sui temi politici e sociali, giacché ogni evento, anche il più stupido, viene attentamente analizzato e le discussioni intorno ad esso sono spesso accese, direi quasi violente nella forma.
Ma poi lo stesso individuo si accorgerebbe che le cose non stanno esattamente così, perché se ci si può indignare con la stessa ferocia per un film su Barbie, un incidente aereo con vittime, il massacro di civili in una guerra e sullo spot di una pesca al supermercato, evidentemente ci troviamo davanti a un problema bello grosso.
In realtà la frenesia che coglie coloro che corrono a fare un tweet contro le frecce tricolori o contro uno spot su una famiglia separata non ha nulla a che fare con l’empatia o la condivisione del dolore, quanto con il proprio ego. Con il desiderio di mostrare al mondo la propria esistenza, il proprio valore.
Per molti non c’è differenza tra la foto di un piatto al ristorante stellato o la foto di un migrante morto sulla spiaggia, manca di solito l’elaborazione del fatto, il pudore, il dubbio e infine l’introspezione interiore.
Gridiamo “vergogna” e ci “indigniamo”. Ma il nostro è un invito affinché siano gli altri a vergognarsi, mentre in realtà la vergogna è un fatto strettamente intimo e personale, che dovrebbe riguardare noi stessi e che non dovrebbe essere sbandierato ai quattro venti.
Il paradosso della nostra epoca è tutto qui: un mondo in cui tutti invocano diritti e giustizia, ma in cui sostanzialmente la grossa maggioranza è interessata solo a se stessa o a una sua ristrettissima cerchia, mentre degli altri non se ne frega nulla. Soprattutto se non c’è una qualche telecamera nelle vicinanze.
In tutto questo a mancare è proprio la capacità di gestire la propria sofferenza e sicuramente l’incapacità di comprendere la sofferenza altrui. Direi che manca la capacità di elaborare le complessità, ma anche questa parola in quest’epoca un po’ strana è stata banalizzata fino ad avere un’accezione negativa.
Resta in me la netta impressione che tutto questa smania di esternalizzare i propri pensieri sia nei fatti una grande paura di guardarsi dentro, perché dentro rischieremmo soltanto di trovare il vuoto.
Vale per tutti, anche per me.
Immagine originale di Doxaliber elaborata via AI Dall-e
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18 commenti su “Un Mondo di Diritti. La Morte dell’Empatia”
Proprio perché ho vent’anni di analisi sulle spalle so che la mia opinione riguarda solo me e non sento alcun bisogno di esprimerla. Concordo abbastanza con quello che dici
Analisi lucida e…. condivisibile.. ma a proposito della condivisione mi sembra terribile e pericoloso il cambiamento di significato comune del verbo condividere: da azione ricca e collettiva (condividere un pasto, interessi, amicizie) a una reazione egocentrica ad un evento esteriore! Grazie
Come al solito analisi lucida e perfettamente centrata. Apprezzo la sua capacità di arrivare in fondo alle tematiche con un grande dono di sintesi.
Nello specifico, l’individualismo porta a ritenere le proprie opinioni verità assolute. Umiltà e rispetto dell’altro sono completamente sparite.
Ho la piccola speranza che abbiamo toccato quasi il fondo e che forse sia già iniziato uno spirito critico, che comincia a far riflettere parte della popolazione moderna.
Grazie.
Buongiorno e grazie ! Condivido il post e i commenti , direi che abbiamo perso umanità per un individualismo sfrenato e una soddisfazione completa dei nostri bisogni , ma così è tutta la società ,si aprirebbe un discorso troppo vasto . I social in certi momenti sono come le arene di romana memoria . Personalmente li ho sempre usati per un ampliamento della conoscenza , seguendo interessi ben definiti , come internet . Grazie ancora
Sono un Boomer. ho portato passeggeri in bicicletta (sono stato a mia volta portato) per rientrare prima a casa.
il tacito accordo nell’età del cinquantino era che la miscela e le multe si dividevano a metà (passeggero e guidatore, amici per la vita o compagni di un momento).
le due qui sopra mi dicono condivisione, accettazione, giustizia e servizio.
e intanto si chiacchierava, ci si scambiavano idee, sogni, progetti e prese di posizione.
le assemblee politiche erano lunghe e spesso noiose, di frequente autocelebrative, ma insegnavano ad ascoltare, a riflettere sull’altrui pensiero (per assurdo anche scoprendo cose nuove che andavano a modificare/integrare il tuo stesso pensiero > quindi evoluzione, pensiero -dinamico- e non ideologia -cristallizzazione-).
non ultimo, una presa di posizione troppo estrema poteva avere pesanti conseguenze (es. prendersi un cazzotto).
tutti piccoli passi di avvicinamento alla socialità (concetto molto diverso da Social).
oggi in tre righe dopo una rapida e superficiale googlata puoi sparare la tua sentenza: anzi, devi spararla; non avere una posizione subito è roba da sfigati (a me questa cosa atterrisce, ho sempre tante domande e su alcuni temi non riesco ad avere risposte precise …).
e poi ti metti in ascolto contando quanti click ti approvano (quanto sono figo ?) e combattendo duramente (a costo/rischio zero) contro chi invece non ti approva.
due termini che mi atterriscono:
non sempre la semplicità è sinonimo di superficialità, ma dividere la vita e il pensiero in frames da pochi secondi guidati dal desiderio di visibilità globale mi sembra un rischio molto alto.
salvo poi, per non perdere la faccia (e followers) nella pubblica arena, sostenere alla morte l’ultima ‘cazzata del secolo’.
insomma, è il trend (globale) del dividere il mondo a metà che non sta in piedi: ti toglie le sfumature, che possono non piacere ma esistono (la famosa infinita tonalità di grigi che si frappone fra il bianco e il nero).
come si fa a sviluppare empatia e pensiero dinamico, quindi ? alcune ‘piste’ molto mie verso le quali -solo per dirne una- sto cercando di focalizzare la formazione del mio pargolo:
non so se ce la farò, ma ci voglio comunque provare, certo di non voler generare mostri di diversità.
Grazie, condivido l’analisi e le conclusioni.
Intanto grazie per avermi segnalato l’esistenza di questo spazio.
Empatia: l’empatia già scarseggiava alquanto, poi con i social è proprio morta in quanto si è scoperto che un animale o un umano sofferente è più ganzo fotografarlo, buttarlo in rete e contare condivisioni/like, che soccorrerlo.
Dimostrare a tutti la propria esistenza e il valore dei propri interventi è diventato spasmodico. Faccio un esempio: su FB tpi riporta la classifica delle prime 100 università europee; centinaia di commentatori che chiedono la stessa cosa, la stessa identica cosa decine centinaia di volte, cioè fonte e parametri (l’hanno imparato in era COVID che così si sentono intelligentoni di spessore). Tra l’altro quando chiedo perché non se li vadano a cercare da soli che cliccare e trovare è un attimo, una mi aggredisce asserendo che lei pretende corretta informazione. Triste pretendere corretta informazione da fb, testate online come tpi sono solo interessate a click- e interactionbait e omettono fonte e parametri appositamente, puntando proprio sugli interventi degli intelligentoni.
Che poi tutti inferociti poiché fra le prime cento comparivano solo 4 o 5 università italiane, dunque per forza di cose il ranking era truccato. Se nel ranking fra le prime 50 fossero state presenti 20 italiane, non si sarebbero fatti tante domande su fonte e parametri.
Sono le dinamiche dei social a spingerti a questo.
Una volta uno leggeva un articolo di giornale, oppure un libro, oppure andava in un ristorante dove gustava una cena buonissima e al massimo poteva scambiare due parole di soddisfazione con le persone che lo accompagnavano. C’era il tempo per riflettere, elaborare l’accaduto, lasciare che le emozioni del momento sedimentassero fino a formare un’opinione e un’idea strutturata.
Oggi tutto questo non è possibile. Anche perché è così che noi vogliamo.
Viviamo in un’epoca di forte narcisismo. Tutti si scattano un gran numero di selfie, spesso allo specchio. Come Narciso si specchiava nell’acqua innamorato della sua immagine. Il narcisismo è una forma di hubris ovvero arroganza e insolenza. Inoltre porta a considerare gli altri come impari se non proprio dei meri oggetti. Così muore l’empatia, la visione si restringe ancor più su se stessi e il serpente si mangia la coda.
Grazie per questa riflessione profonda e dettagliata. Sono d’accordo, manca empatia. Che paura. Come possiamo fare per crearla?
I social hanno sicuramente contribuito a questo, o forse hanno solo fatto emergere di più la nostra parte egoistica. Forse è anche colpa di “un sistema” o un modello di sviluppo che non ha come scopo renderci umani, empatici, consapevoli, ma produrre, proteggerci e il profitto. Non parliamo poi del valore dell’apprendimento, conoscenza e senso critico.
Temo la superficialità dilagante, aiutata dai social dove immagini e notizie vengono postate senza controllare, senza pudore, senza riflettere.
Temo il “linguaggio da post” anche nella vita reale, dove nel confronto non si cerca di capire ma di aver ragione, prevalere, prevaricare. “Posto e valgo” come “parlo e ho ragione”, “Posto e pontifico” come “parlo e prevarico”. Da qui, innumerevoli frustrazioni, brutture, crudeltà.
Temo che non sia tanto la mancanza di capacità di gestire le sofferenze, proprie o altrui, ma manchi piuttosto la VOGLIA di imparare a gestirle, la voglia di mettersi nei panni dell’altro. La voglia di empatia lascia lo spazio alla voglia insaziabile di egocentrismo/egoismo.
Cosa possiamo fare?
Qual è il modello di società, basata sull’empatia, che possiamo seguire?
Scusate la lunghezza.
Vorrei darle una risposta, ma non ce l’ho. Senza voler fare un discorso anticapitalistico sicuramente la nostra società è incentrata molto sul soddisfacimento dei bisogni individuali e poco sulla ricerca del benessere collettivo.
L’empatia o quanto meno la voglia e il desiderio di comprendere gli altri, di collaborare per costruire, si forma secondo me da giovani, in famiglia, nelle scuole, nel mondo del lavoro.
I social prosperano proprio per il desiderio degli utenti di apparire. Si alimentano del desiderio (e per questo lo amplificano) delle persone di appartenere al branco (il pensiero unico) che fa di te una persona giusta (e la gara è a chi dice la cosa più giusta). O di andarvi contro per sentirsi un eroe. E su questo prato pascolano la politica attuale, ormai solo una macchina acchiappavoti, ed il mercato che ti vuole uniformato per venderti meglio il prodotto. Il pericolo è per i giovani, che vivono dell’immediato, non sviscerano, non vanno oltre, non criticano e non si fanno criticare. Il vuoto dentro aumenta sempre più e dove trovi vuoto è più facile riempire per il venditore di turno. Bisogna essere pessimisti? Non del tutto, perché poi vedi nascere spazi come questo, che ci aiutano nella riflessione.
Simpatia, antipatia, empatia. Tre parole con la stessa base, la “patia”, da πάϑος, sofferenza. Soffrire insieme, ed ecco la simpatia: provare le stesse sensazioni. Soffrire contro, in modo diverso e antitetico, ecco l’antipatia. Soffrire dentro, immedesimarsi nelle emozioni degli altri, capirle, anche se lontane anni luce dalle nostre: questa è l’empatia.
L’empatia sta morendo?
Sì.
Perché non siamo più empatici?
Forse, perché la nostra società è fatta di bianco e nero, di amore e odio, di destra e sinistra, di sì e no. Abbiamo perso il gusto, ineffabile e tenero, di scegliere le sfumature del forse e del magari, appellandoci alla falsa certezza dell'”è”.
Crediamo che affermare con forza e con rabbia un’opinione, qualsiasi essa sia, ci renda importanti e, soprattutto, convinca gli altri a considerarci tali.
Gli altri sono diventati il nostro pubblico, spettatori da meravigliare, sorprendere e convincere della nostra rilevanza nella società.
Mi spaventa un pensiero: che, spesso, quell’opinione che, così audacemente, proponiamo e portiamo avanti, non è neppure la nostra opinione, ma solo quella che ci pare essere l’opinione vincente.
(Mi accorgo adesso che, più che un commento, ho scritto un’omelia.
Chiedo venia.)
Un’omelia che mi trova concorde però.
Intervento magistrale, come tanti altri scritti dell’autore e letti altrove. Sono particolarmente sensibile all’argomento e convinto che ormai non si possa più tornare indietro. Il meccanismo del consenso, che poi è la spinta propulsiva che alimenta il teatrino quotidiano dei social, ha avvelenato i pozzi delle nostre anime, ormai incapaci di soppesare le emozioni, di distinguere l’ovvietà dal pensiero critico, la superficialità dalla sostanza.
È il diktat dell’esserci, del mostrarsi a tutti i costi, che domina questa era digitale. Sempre più persone si sentono obbligate a partecipare a questo incessante flusso di informazioni e opinioni, temendo di essere lasciate indietro o di diventare irrilevanti se non partecipano attivamente. È diventato difficile fermarsi, fare una pausa, e riflettere veramente su ciò che stiamo consumando e condividendo online. La cultura dell’istantaneità ci spinge a reagire subito, a cavalcare l’hype, senza concedere il tempo necessario alla riflessione e all’analisi critica. Chi si ferma scompare nel dimenticatoio in men che non si dica.
E la riflessione va estesa anche in senso contrario. Mi spiego: le dinamiche social non solo ci spingono ad assumere un comportamento tossico online, ma credo stiano toccando anche la nostra interazione nel mondo reale. Stiamo diventando, in un certo senso, la versione offline delle nostre personalità online. Il desiderio di approvazione e validazione che ci domina sui social media inizia a permeare anche le nostre relazioni nella vita di tutti i giorni. Quante volte ci sorprendiamo a pensare alla vita come una serie di momenti instagrammabili piuttosto che esperienze da vivere appieno?
La speranza che qualcosa cambi la lascio a chi trova conforto in questo genere di pensieri. Sono abituato a cercare opportunità di cambiamento anche nelle crisi più nere, ma stavolta sento che l’occasione per invertire la rotta sia già alle nostre spalle, passata sotto i nostri nasi mentre eravamo intenti a postare quanto schifo ci faccia la melma paludosa in cui sguazziamo tutti i giorni.
Scriverei per ore, ma non voglio approfittare della pazienza di chi legge. Ringrazio Doxaliber per l’intervento, Commander per lo spazio di discussione, e chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui.
Ps: Black Mirror Serie 3 Episodio 1 “Nosedive”. Da guardare.
Se vogliamo anche lo smartworking, pur con tutti gli aspetti positivi del caso, porta con sé il rischio di un’ulteriore forma di alienazione. Il lavoro è forse l’ultimo momento di aggregazione basato su necessità e interessi comuni che ci sia rimasto. I vecchi dopolavoro avevano questo preciso scopo in fondo.
Condivido quasi tutto. Non mi identifico nelle ultime tre righe non perché mi ritenga superiore ma perché cerco sempre di restare (disperatamente) umano.
Aggiungo che oltre ai social la televisione di questi ultimi anni ha dato una grande mano ad impoverire le culture e in parte anche l’educazione. Purtroppo quando si passa dalle lezioni di educazione civica, dall’oratorio, dal servizio civile alle serie tv come Gomorra e simili o all’isola dei famosi i risultati sembrano essere quelli che vediamo. Aggiungiamo pure quel paio di sberle prese dai genitori che, a suo tempo, mi rettarono la misura.
Cordialmente