I massacri in Ucraina e i pezzi di Europa che cercano di sfilarsi sono un deja vu più odioso che imbarazzante. E ci caschiamo sempre: “ne usciremo migliori”, “non succederà”. Invece la storia si ripete. Fra il 1937 e il 1939 l’Europa, Gran Bretagna e Francia in testa, cercò di frenare la Germania di Hitler con la politica dell’appeasement: la concessione di terre (altrui, ovvio) per allontanare la guerra. Com’è andata si è visto: e una volta ancora si sentì forte e chiaro, ma forse non per tutti, il proclama “Mai più!”.
Lo stesso è successo con i Balcani negli anni Novanta: invece di intervenire a fermare i serbi (sempre loro, guarda caso) tutti quanti, spiace ma compresa l’Unione Europea, si girarono dall’altra parte sperando in una improbabile stabilizzazione dell’ex Jugoslavia. Dopo morti a migliaia e nessuna scelta coraggiosa, anzi… l’Occidente intervenne con abbastanza forza da obbligare tutti a una pace armata. Quanta pace, e quanto armata, lo stiamo vedendo ancora adesso in diretta alla frontiera tra il Kosovo e una Serbia ancora legatissima alla Russia di Putin.
Da giornalista ho vissuto diversi momenti di questa tragedia. Ammetto che in qualche situazione (non solo nei Balcani) ho faticato a restare confinato nel mio ruolo di testimone: e da allora nutro un disprezzo per chi dà fiato a questi colpevoli silenzi e al finto pacifismo, che è sempre schierato per gli aggressori. Sempre. A Natale 1991 una guerra nel sud della Croazia, a 300 chilometri da Trieste ci sembrava impossibile, eppure le cannonate erano vere. Finita quella fase… beh, i massacri più atroci del secondo Novecento stavano appena iniziando.
Invece quattro anni dopo in Bosnia, a Srebrenica, nessuno aveva più il diritto di avere dubbi. Ottomila. Trecento. Settanta. Due. Sono i bosniaci massacrati in massa dai serbi di Mladic dopo essere stati portati via (mentre gli olandesi del contingente Onu non facevano una piega) e sepolti in grandi fosse comuni per fare pulizia etnica e lasciare spazio ai serbi. Per riesumare e identificare i resti ci volle fino al 2015. Come resta scritto a Mostar in vista del ponte, nel futuro si potrà perdonare, ma non dimenticare. Non fatico a condividere.
Io cerco di scendere a patti con quei ricordi che spuntano fuori dai cassetti digitali come zombie. Ogni tanto li racconto ai ragazzi all’università: stupiti, increduli, commossi. Spero che il loro “mai più!” resista meglio del nostro. Qui sotto, dopo una camionata di dubbi, lascio un frammento per ciascuno di quei momenti. Il primo l’ho scritto in una surreale notte di Natale in Croazia, il secondo in un luglio bosniaco che mi perseguita ancora. Due paragrafi soli, poi se ne tornano nella loro cripta, e io resto a pensare a noi e all’Ucraina.
Kutina. È il crepuscolo senza vita della vigilia di Natale del 1991, sulla strada tra Zagabria e Vukovar. Le chiese sono sprangate e i negozi bruciati. Chi cerca pane finge di fare shopping, e i canti natalizi li intonano i lanciarazzi multipli e i cannoni da campagna. Un soldato trasandato cammina tra le baracche con le mani sotto le ascelle e un Kalashnikov arrugginito che pende da una spalla. La notte santa sta piombando su questa terra senza gioia né l’illusione di una speranza. Tutto è gelido e calmo, il cielo è illuminato: ma è il silenzio di un cimitero, e le luci non portano la Stella cometa ma salve di Katyusha al ritmo di 24 razzi ogni mezzo minuto. Fuori, nei campi umidi e brinati, si sente l’organo di Stalin che sta provando l’ouverture del suo concerto di Natale.
Srebrenica. Cielo blu, neanche una nuvoletta. Fiori di campo, erbetta, aria tiepida. Sembra un documentario dell’estate sulla Sava, ma in tv non si sente l’odore della morte. Datemi un profumo, o un letamaio, qualcosa che non mi faccia pensare. Vorrei vomitare ma non riesco, l’orrore rimane in gola. Si raccolgono i primi morti: vecchi, uomini macellati, bambini. La puzza (con tutto il rispetto non posso trovarle un altro nome) è solida come un pugno in faccia, sento che mi macchia dentro e il vento non la porta via. Quelli del recupero ci provano con un po’ di gentilezza, ma la scelta è fra pale e ruspe. Faccio foto, annoto qualche nome: Zdenko Tomasic. Ma mi sembra inutile, come forse a Zdenko sarà sembrato inutile gridare a bocca spalancata mentre lo seppellivano ancora vivo.
Immagine dell’autore.
Nota sulla proprietà intellettuale
Ogni diritto sui contenuti (a titolo esemplificativo, documenti, segni distintivi, immagini, files, architettura del sito) è riservato ai sensi della normativa vigente. La riproduzione anche parziale, in qualsiasi forma, ad esempio, ma non esclusivamente, del testo, sia in forma testuale che come immagine e delle immagini, se non esplicitamente autorizzata, sarà perseguita a termini di legge nei confronti di soggetti singoli e/o realtà aziendali.Devi specificare un indirizzo di email valido per aggiungere un commento
6 commenti su “Canto di Natale per l’Organo di Stalin”
Mi ricorda Curzio Malaparte, una penna delicata per descrivere un orrore che toglie il fiato. Ora come allora ci diciamo non succederà più, sapendo che non è vero
Malaparte starà venendo a cercarmi per chiedermi di persona se davvero posso ritenermi in grado di competere con la SUA, di penna… Comunque grazie: per tentare di sostenere idee, principi e valori sui social con un dialogo civile prendiamo così tante martellate che ogni tanto un complimento fa davvero piacere. L’orrore quando si spara, si sgozza e si stupra toglie davvero il fiato, e non voglio zuccherare la pillola. Ma Primo Levi diceva che paradossalmente è proprio la poesia il linguaggio che questo orrore lo contrasta meglio.
Allora, come oggi, la responsabilità dell’Occidente è grandissima. Malgrado le capitali sapessero chi è Putin, per anni è stato assecondato, ignorato e blandito. Clamorosi però i flaw dell’intelligence americana , il non aver capito cosa veramente avesse in mente e le sue ragioni, quasi un clash culturale a tratti, pur sempre un grave errore di valutazione.
Davanti ai massacri di oggi continuiamo a tentennare, e non saranno serviti a niente gli aiuti “misurati e cauti” calcolati in miliardi di dollari, perché non abbiamo mai messo gli ucraini in condizione di dare una svolta decisiva al conflitto. Quindi si, complici del macellaio del Cremlino.
Resta la pena, il pugno allo stomaco davanti ad ogni nuovo massacro, resta il disprezzo e lo schifo per chi dal divano di casa o di uno show televisivo prezzolato osa disquisire di pace finta, sostiene Putin e critica Zelensky.
Tanto a farne le spese è un popolo innocente. Continuiamo a guardarla dai nostri piccoli schermi questa tragedia, non ci tocca personalmente ( nella maggior parte dei casi, non mio) e possiamo dar sfogo alle fanfare, mentre la gente muore torturata, stuprata, smembrata da bombe,persino mentre partecipa ad un funerale.
Ci siamo macchiati di un’ennesima tragica vergogna come occidente.
In ultimo la ringrazio per il suo lavoro, serietà professionale ed umanità 🙏
Grazie Masha. Sì, l’Occidente ha colpe gravissime perché in qualche stanza della politica c’è sempre qualcuno che spera che le situazioni si risolvano da sole o portino vantaggi alla sua parte. Abbiamo fatto l’errore più grande più di una volta: tradire la fiducia di chi si era fidato della nostra parola, come di recente i curdi e gli afghani.
Ma mi lasci sottolineare che alla fine mentre i quattro quinti del mondo queste tragedie si limitano a ignorarle e aspettano di coglierne i frutti, alla fine è quasi sempre un pezzo di Occidente, se non tutto insieme, che si alza dal divano e combatte per sistemare quello che resta. Anche in Bosnia e in Kosovo. Lenti, distratti, ma complici no.
Ricordo con gratitudine che nonostante nella Seconda Guerra Mondiale noi fossimo tra gli aggressori, gli anglo-americani nella campagna d’Italia hanno perso quasi 315 mila uomini tra morti e feriti. Occidentali morti anche perché non crescessimo parlando tedesco. Altri le guerre d’aggressione le scatenano, e tanti di li appoggiano pure.
Aggiungo solo una considerazione: il concetto stesso di “aiuti misurati e cauti” è solo una scemenza. Condivido la sua rabbia, ma è il backlash, il colpo di frusta della democrazia. Si perde un sacco di tempo a discutere, ma non farei cambio. Un abbraccio
Dopo questo resoconto/racconto ho la nausea, le parole sono pesanti come la terra usata per seppellire ancora vivi i nemici di una terra sorella. La storia si ripete ancora e ancora non impariamo mai. Non finirà bene
Mi spiace di doverle dare ragione. Davvero, non sa quanto. No, temo che non finirà bene. Anche perché per qualcuno non è mai finita. C’è solo una parvenza di non-guerra che può saltare da un momento all’altro, come appunto in Kosovo.
Mi spiace per la nausea e per le parole pesanti, ma è una realtà che in troppi cercano di nascondere e sminuire. A lei grazie per avere ancora la capacità di provare questo dolore.