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Critica del Perdono

Il perdono e la rieducazione sono termini offensivi. La loro stessa esistenza, come concetti, è un’inaccettabile violazione delle leggi fondamentali di un universo dove la morale è pura invenzione. Tutto è regolato esclusivamente dal contrasto all’entropia che si esplicita con la lotta per la sopravvivenza attraverso l’esercizio del naturale meccanismo della difesa. L’aggregazione sociale ha fini puramente utilitaristici e comporta un costo energetico individuale che deve essere controbilanciato da un proficuo ritorno per tutti quegli aspetti della vita che si avvantaggiano di un approccio cooperativo. Fra questi spicca, appunto, la difesa. La condanna laica del furto e dell’omicidio, ad esempio, non attinge a inesistenti valori morali, ma a una pura e rispettabilissima considerazione di convenienza. Una comunità che bandisce furto e omicidio trasferisce la competizione su un piano più appropriato per tutti riducendo il peso della brutalità, della forza individuale e privilegiando l’impegno, il lavoro e la collaborazione, valori che si sono storicamente dimostrati più efficaci nell’elaborazione di progetti complessi. Una società che non è in grado di proteggere chi la compone fallisce uno dei suoi obiettivi fondamentali e incrina la sua stessa ragione di essere. Per questo, la responsabilità del singolo non dovrebbe mai essere soggetta al perdono. Il perdono, con la sua odiosa graduatoria morale che pone il perdonante un gradino sopra il perdonato è un’insopportabile ipocrisia che diluisce dannosamente la responsabilità personale e crea delle aspettative di remissione che non hanno alcuna ragione di essere in una collettività laica dove il compimento delle cose, di tutte le cose, è atteso qui e subito e non altrove e chissà quando. In un mondo perfettamente agnostico la sicurezza si persegue con la certezza indissolubile che ad azione corrisponde sempre e comunque una reazione implacabile e severa. La vera rieducazione è preventiva e deve inculcarsi nei singoli con la stessa profonda radicazione dell’istinto di sopravvivenza. La pena inflitta da un tribunale non è meccanismo di remissione delle proprie colpe in funzione di un perdono, ma l’esercizio di una vendetta che la vittima riceve come servizio reso dalla collettività. Io auspico fermamente una società dove il perdono sia considerato un reato e ferocemente perseguito con pene severissime. Ovviamente senza possibilità di remissione.

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