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Altri Giorni, Altri Occhi

Altri Giorni

La postazione di guardia è un piccolo bunker in cemento con strette feritoie e una porta blindata. A starci in tre con armi e munizionamento deve essere stata una sofferenza. Sempre meglio di quello che è successo dopo. Mi faccio tutto il tratto allo scoperto tenendomi, per quel che è possibile, al riparo dai cecchini ma cercando di non cedere alla tentazione di curvarmi. Piegare la schiena è istintivo, però non serve a un cazzo e se i tuoi commilitoni ti vedono camminare con la schiena dritta ne guadagni in rispetto.

La porta è chiusa. Mi appoggio un attimo alla parete per trovare il chiavistello che porto nella giubba e cerco di far girare la serratura. La serratura gira, ma la porta non si apre. Me lo sarei dovuto aspettare. C’è poco da fare. Faccio segno ai miei che devono pensare loro a guardarmi le spalle. Poso a terra il fucile, poggio il piede vicino al muro, serro entrambe le mani sul maniglione e, facendo leva sulla gamba, tento di aprire la blindata. Cede molto prima di quanto mi fossi aspettato e finisco col culo a terra. Sento qualche risata sommessa. Mi sono giocato tutto il rispetto guadagnato con la camminata marziale fatta tre minuti prima. Disciplinatamente, mi rialzo, mi riallaccio l’elmetto, tiro un sospiro rassegnato, recupero il fucile, controllo il giubbotto antiproiettile e, con cautela, mi affaccio nella stanza.

E successo da meno di tre ore, ma con il caldo l’odore è già terribile. Una granata, tre uomini in quello spazio ristretto, diciotto litri di sangue, pareti che contengono invece di dare sfogo all’esplosione, schegge disperse come sottili pugnali. Prima e dopo non ho mai visto più niente di simile. Mi giro verso i miei e mi passo tre volte, lentamente, il pollice teso sotto il collo. Prima in un verso e poi nell’altro per dire che non c’è più bisogno del dottore e che quello che dovremo portare con noi potrà andare in un sacco.

Stavolta non ride nessuno.

Tre giorni dopo becchiamo quelli che hanno lanciato la bomba nel posto di guardia. Onestamente, certi che siano stati proprio loro non lo siamo, ma sono gente dell’altra parte, li abbiamo pescati in zona ed hanno il pianale della tecnica pieno di granate. Così, anche per far capire che certe cose non ci piacciono, decidiamo di ammazzarne tre e lasciarne andare uno perché poi lo vada a raccontare ai suoi amici. Scegliamo come sempre quello che ci sembra il più vecchio o messo peggio. Se proprio devi lasciarne andare uno, molli quello che corre più lento e hai più probabilità di beccare la prossima volta. E poi i vecchi hanno la capacità di capire le lezioni. I giovani sono distratti. E vendicativi.

E quindi li portiamo tutti e quattro nel cortile della postazione e mentre due di noi tengono il fortunello, io e altri cinque spariamo agli altri tre. E’ una cosa di secondi, se ne va solo mezzo caricatore, non c’è nemmeno il tempo di pensare. Muoiono con la rassegnazione di chi sapeva già che quello sarebbe stato il suo destino. E’ solo mentre li stanno portando via che mi viene in mente che, anche se non è la prima volta che sparo a qualcuno, oggi l’ho fatto senza un’effettiva necessità. Non c’era da guardarsi la pelle, non c’era da prendere una posizione, non c’era da coprire un compagno. Ho sparato, ma ne avrei potuto fare a meno. Sergej, il mio tenente, forse pensa che io sia stato stressato dalla cosa. Si avvicina e mi offre una Noblesse.
Mentre me l’accende, nel suo inglese dalla pronuncia perfetta mi sussurra: “Go on. The fight is everywhere”.

Altri Occhi

“Bosco ti voglio bene,
e voglio che rimaniamo sempre insieme
delle tue foglie, dei tuoi uccellini e dei tuoi frutti
noi siamo amici tutti”

I bambini cantano la canzone e, quando le maestre fanno segno, alzano in alto le manine. S. è rossa come un peperoncino, sudata ed emozionatissima. E’ una “grande” e quest’anno tocca a lei ricevere il diplomino ed il ricordo della scuola materna prima di avviarsi lungo un cammino dove, ogni giorno, le sarà perdonato sempre meno.
Tanti genitori, tutti con telefonini, telecamere e macchine fotografiche. Mamme e papà giovani e sorridenti. Non sono il più vecchio solo perché ci sono i nonni.
Di fianco a me ho Roberto. In tre anni di esilio nelle Dolomiti è l’unico trentino con cui abbia scambiato più di dieci parole. Esclusi quelli con cui lavoro che non fanno numero.
Dopo lo spettacolo, mentre i bimbi si preparano per la cerimonia, Roberto mi racconta con la sua voce suadente la cerimonia che allestisce per i suoi clienti per fargli assaggiare il prodotto. Parla con lentezza, eleganza e proprietà di linguaggio. E’ gentile ed intelligente, un gran venditore. Eppure, mentre descrive la campagna pubblicitaria per il lancio di quest’anno, gli vedo battere insistentemente le palpebre con un tic nervoso che non gli ho mai percepito prima. Sono sicuro che dietro la patina ovattata della presentazione, in questi anni di battaglia, anche Roberto deve rincorrere i clienti agitando le fatture non pagate cercando nello stesso tempo di scampare banche e creditori.

Ci interrompono le maestre che chiamano le “grandi” ed i “grandi” uno alla volta. Si tratta di salire su una sedia, ricevere una specie di diplomino, uno zainetto con il nome scritto sopra, farsi una foto e poi via per sempre a cercarsi una strada che li porterà altrove.
Quando chiamano S., lei mi guarda, sorride e saluta. Sale sulla sedia, riceve il suo applauso, da grande attrice si china per ringraziare il pubblico e poi, con un saltino, scende. Questo è uno di quei momenti nei quali vorrei aver conservato la capacità di commuovermi.

Ora che la cerimonia è finita ci possiamo finalmente abbracciare. Quando la sollevo alla mia altezza per darle un bacio lei mi dice: “Papà, oggi ho camminato senza piangere. Sei orgoglioso di me?”. Sì, lo sono e glielo dico. Anche se mio padre a me non lo ha mai detto. io ho deciso di essere un padre diverso. Spero solo che quando mia figlia sarà un’adolescente punzonata interessata solo alla ricarica io sarò così scimunito da non soffrirne.

Nella luce scintillante di questo pomeriggio di giugno, nell’aria si disperdono le sottili faville dei Denti di Leone ed è come in un sogno che scorgo S. giocare con i suoi amici, senza voltarsi una sola volta verso di me. Ora è come se il piccolo altipiano si fosse improvvisamente dilatato, più che nella linea dello spazio, lungo quella del tempo. Vedo S. farsi sempre più lontana e la parte di me che vorrebbe trattenerla agitarsi rabbiosa. Così socchiudo gli occhi per un attimo e poi li riapro. Bambini ovunque, la bella moglie di Roberto che gli ficca in bocca un pezzo di crostata e fra le fronde degli alberi, per quello che possono vedere i miei occhi esperti, nemmeno un cecchino.

Immagine originale elaborata via AI Dall-e

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